Cristina Acidini – famosa storica dell’arte – recensisce l’opera di Carmine Ciccarini, artista “ipermetropolitano”
Carmine Ciccarini, per chi come me ne vede l’opera senza conoscerne la genesi, sembra preso da una insistente nostalgia dell’altrove; di quell’altrove perfettamente alternativo rispetto agli spazi umani (ipermetropolitano appunto) e misurati delle antiche cittadine dell’italia centrale a lui familiari, che si identifica nei soggetti urbani ricorrenti sulle sue tele. La sua città americana, statunitense, spesso New York è onnipresente in continue variazioni di tagli e di luci; tanto da esserci anche quando non c’è, o non si vede: perché a lei certamente, sirena irresistibile per il pittore, conduce il prospettico andare verso l’orizzonte suggerito da carrozzabili lunghe e nette in lande deserte.
Evocazioni scatolari, irte di spigoli affilati e baluginanti di luci artificiali, i centri di Ciccarini si lasciano tuttavia intridere da piogge occasionali, che addensano il grigio del cielo sopra i grattacieli. Lustrano le automobili; trasformano in fanghiglia quel poco di terra e di polvere che si annida sotto i marciapiedi anche dell’abitato più terso e lindo. Alcuni dei quadri di Ciccarini fanno rivivere le sensazioni fugaci che ci restano d’una metropoli, nella memoria degli occhi e dei cuore. Come quando si getta un’occhiata dalla finestra dell’albergo, verso il ventesimo piano, e la veduta serotina prende un piglio geometrico di quinte scure e sprazzi di bagliore, tra l’ammiccare misterioso e commovente di finestre illuminate, spie di riti domestici inconoscibili eppure confortanti che appartengono a innumerevoli vite altrui. Tocca talvolta al fiume, lama piatta e crepuscolare, spezzare la continuità ossessiva dei costruito coi suo riflesso di cielo.
E ci si distoglie da quella visione con breve vertigine, non per l’altezza ma per l’immensa e ingovernabile complessità dell’esterno, ripiegando nella camera magari impersonale e tuttavia rassicurante, chiusa scialuppa per singoli o coppie nel naufragio urbano.
E come quando si cammina per un’avenue, sul piano stradale cupo e a tratti fumigante come in un inferno vittoriano, sprofondati in un canyon di grattacieli che non esclude il cielo, cui si è grati per esser là a trascolorare in un tramonto che dabbasso è precoce, e per restare più alto e più libero dell’antenna più erta di qualsiasi cuspide. Materiali refrattari alla poesia- lamiera e bitume, vetro e cemento trovano in Ciccarini un indagatore che ne comprende e ne riprende la sostanziale fragilità, vulnerabili come sono alla sottile malinconia dei cieli tagliuzzati dalla skyline nei pomeriggi umidi o nei tramonti affocati. Con le sue stesure decise, i profili di luce zigzaganti rapidi come folgori, gli addensamenti grumosi di tinte, il pittore ci trasporta in una dimensione ipermetropolitana, scenario dei nostri verosimili sogni incubi di turisti affascinati e di cittadini guardinghi.
Cristina Acidini – storica dell’arte e scrittrice – Ex Sovrintendente per il patrimonio artistico ed etnoantropologico del Polo Museale Città di Firenze
Firenze, marzo 2013